DIARIO DI UNA FOTOGRAFA: QUANDO PER LA PRIMA VOLTA INCIAMPAI NELLA STORIA





A Roma, in Piazza Rosolino Pilo, c'è un enorme palazzo; è lì dal tempo del fascismo ed è al tempo del fascismo che in uno di quegli appartamenti si è consumata una tragedia familiare che poi è stata consegnata alla Storia, quella nefasta dello sterminio nazifascista e della deportazione di tanti innocenti, colpevoli solo di essere ebrei, ossia colpevoli di niente.
Qualche anno fa, davanti a quel palazzone hanno messo delle pietre di inciampo a ricordo dei membri della famiglia ebrea che venne deportata in massa nei campi di concentramento nazisti e che da quei campi non fece più ritorno, o meglio, tutti non tornarono meno uno. 
Fra quelle pietre infatti non c'è  il nome di Piero Terracina e non compare perché lui non è diventato una pietra d'inciampo; Piero Terracina -grazie  Dio, a Jahwe, al Cielo, al Destino, ognuno lo chiami come vuole, non importa- si è salvato.
Piero era poco più che un bambino  quando venne deportato con la sua famiglia e fu il solo che uscì vivo da quell'orrore e fece ritorno a casa, a guerra finita.
Quando un giorno passai da lì e decisi di fotografare quelle pietre d'inciampo e lessi quei nomi, mi resi conto che io in un certo senso con quella famiglia avevo una sorta di legame morale, perchè Piero Terracina io l'ho conosciuto e quando lo incontrai, per la prima volta, inciampai nella Storia, quella vera.
Ma prima di conoscerlo, io con Piero mi scontrai, anzi, non con Piero, con il suo braccio, o meglio, con il numero che portava  tatuato sul  braccio (e che porta tuttora perché Piero, classe 1928, è uno dei pochi testimoni di quelle atrocità che è ancora in vita)
Uso il verbo "scontrai" non a caso: è un verbo forte, violento, ma è giusto così. Una sera d'estate di molti anni fa ero a piazza Santa Maria in Trastevere per assistere ad  un concerto; a fianco alla mia sedia c'era seduto un uomo con la camicia a maniche corte e mentre ascoltavo la musica lo sguardo mi cadde sul suo braccio e vidi che c'erano tatuati dei numeri. Lì per lì non capii, non mi resi conto subito e arrivai lentamente a comprendere, probabilmente per una difesa inconscia: in effetti, prima di quel momento quei numeri tatuati sul braccio per me erano esistiti solo fra le pagine dei libri di storia e visivamente li avevo scorti solo nei film, perchè era solo nei film e negli sceneggiati o al massimo nei documentari storici che io li avevo visti e che avevo avuto a che fare con la deportazione. La Shoah era per me qualcosa di terribile ma anche di lontano non solo nel tempo, ma proprio anche lontano dalla mia realtà quotidiana e familiare. 
Quando per la seconda volta posai lo sguardo su quel braccio e su quei numeri tatuati con un inchiostro scuro,  compresi, capii di cosa si trattava e per me fu come trovarmi davanti ad un muro, il muro della Storia, contro il quale i miei occhi, in quella calda e serena serata estiva, si scontrarono... sì, per me fu proprio come andare a sbattere contro la crudele  realtà di una nefandezza che fino ad un attimo prima avevo conosciuto solo sui libri di scuola o al cinema.
Quella fisicità, quel fatto che se avessi allungato di pochi centimetri la mia mano avrei potuto con le dita sfiorare quei numeri, e così facendo sfiorare la Storia, mi fece toccare con mano la tragedia della Shoah. 
Rammento che mi venne da piangere. Ricordo la profonda tristezza e pena che provai a guardare quell'infame marchio della nostra Storia di ieri le cui conseguenze fanno ancora  parte dei nostri oggi.
Poi conobbi Piero, me lo presentò Adriano Mordenti (che tra l'altro è stato un bravissimo fotoreporter).
Piero un giorno raccontò come avvenne la deportazione della sua famiglia; furono denunciati, venduti per 5 mila lire (o giù di lì, la somma esatta ora non la so più), ma rammento che Piero Terracina accennò che fu un corteggiatore, respinto, della sorella di Piero che denunciò lei e tutta la sua famiglia, forse per schifosa vendetta, perchè da quell'omuncolo che era, si sentì ferito nell'orgoglio e si vendicò mandandoli a morte sicura. Visto il clima dell'epoca è molto probabile che sarebbero stati denunciati comunque, quello fu un pretesto, certo, però mi viene da urlare: che schifo! 
La storia  -anche quella con la "S"  maiuscola- è sempre fatta solo da noi esseri umani e la linea di demarcazione fra un lieto fine e una tragedia è sempre segnata solo e soltanto dagli attori che sono sul palcoscenico in un  preciso momento storico; nel caso della famiglia Terracina che venne deportata da uno dei palazzi di Piazza Rosolino Pilo, sul palcoscenico, purtroppo, c'era un omuncolo spregevole,  incapace di accettare di essere stato respinto da una bella ragazza. Una storia che, se non fosse per il modo tragico in cui è terminata, sarebbe di una banalità disarmante... ma il male è sempre banale.
La sua banalità, però, non lo giustifica e il Tribunale della Storia non lo assolve.

Roma, 27 Gennaio 2018 (da Diario di una fotografa, di Monica Cillario)

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