IL PORTONE

Sono a Roma e penso a Nizza, alla casa del quartiere dei musicisti. Penso che se adesso prendessi un aereo e volassi lì e poi suonassi al portone di Rue Rossini, dove c'è l'appartamento di mia madre, non mi aprirebbe nessuno. Mia madre non c'è più, è morta; non so dov'è la sua anima ma so dov'è il suo corpo: si sta decomponendo chiuso in una bara sepolta nel cimitero di Cimiez. La morte è l'unica cosa certa che abbiamo nella nostra vita, però, ogni volta che muore qualcuno che ci è stato caro (magari ci ha fatto soffrire maledettamente, ma gli abbiamo voluto bene), ogni volta che ciò accade, soffriamo e ci disperiamo e ci domandiamo "perché?"  quasi stupiti che quest'unica cosa ineluttabile e certa sia accaduta. Sapevo che lei era gravemente malata e sapevo che sarebbe morta in pochi mesi, ma quando è successo non sono riuscita a contenere il mio stupore. Stupore sì, in effetti ero più stupita che addolorata, ero stupita e stordita. Il dolore è venuto dopo, quando ho visto il suo corpo morto ricomposto nella bara solitaria che quelli delle pompe funebri avevano sistemato nella camera ardente. La guardavo e mi sembrava che dormisse e che da un momento all'altro avrebbe aperto gli occhi e mi avrebbe salutata, sorridendomi con il suo sorriso spento, fissandomi con gli occhi ormai privi di quella luce singolare, quella luce che avevano sempre avuto, che l'avevano sempre resa bella di una bellezza particolare ma che si era spenta definitivamente subito dopo l'operazione all'opsedale di Marsiglia. Ora, quando mi guardo allo specchio, nel mio volto vedo quello di mio padre, i suoi lineamenti, la sua espressione, ma la luce che ho negli occhi non è quella dello sguardo di mio padre, no, è la luminosità degli occhi di mia madre; i miei occhi sono i suoi occhi, forse per questo non riesco mai a specchiarmi che per pochi minuti: il dolore del ricordo è troppo forte, è come una   ferita perpetuamente fresca che non riesce a rimarginarsi.
Tra le altre cose oggi è anche domenica: io odio le domeniche. Ricordo che mia madre mi telefonava e mi raccontava che aveva stirato tutto il giorno poiché era arrivata alla conclusione che era meglio si lasciasse tutto lo stiro per i pomeriggi domenicali, "almeno passano prima, perché sono così tristi, mi mettono addosso la malinconia", mi diceva. Anche a me le domeniche mettono addosso un senso di malinconia deprimente, a volte addirittura paralizzante.
A Nizza mia madre viveva da sola: ha passato gli ultimi anni della sua vita in una tetra solitudine. Prima aveva mio padre; litigavano in continuazione e lei prendeva la sua A112 e se ne andava; lo piantava in casa da solo, come un cretino. Se ne andava via ma sapeva che lui però c'era, alla fine c'era sempre. Avere qualcuno da cui scappare non ti fa sentire abbandonato. Quando questo qualcuno non c'è più allora sì, all'improvviso ti accorgi di essere rimasto solo e il peso della solitudine ti cade addosso, tutto insieme -come una valanga- e tu rimani sepolto lì sotto. Dopo la morte di mio padre lei non ha più potuto sbattere la porta e andarsene, perché non aveva più nessuno da cui scappare: in casa era rimasta sola e a quel punto da chi poteva fuggire? Non si può fuggire da sé stessi. Mia madre ha vissuto gli utlimi cinque anni della sua vita sepolta sotto la valanga della solitudine e alla fine è morta soffocata, come a volte si  muore sotto le valanghe. Ora le domeniche non le mettono più la malinconia e a me sembra che la sua dose di angoscia domenicale sia stata ereditata da me.
Siamo in autunno e sta per piovere e i tuoni mi fanno venire in mente un temporale di tanti anni fa, proprio a Nizza. Era il periodo delle vacanze pasquali e avevo deciso di andare da mia madre; Ludo ed io stavamo separandoci e lasciargli l'appartamento libero e sgombro della mia presenza mi era sembrata l'idea migliore, perciò partii. Arrivata a Nizza le comunicai che avevo chiesto la separazione: mi guardò atterrita e la sua espressione fu  identica a quella che aveva fatto quando anni prima le avevo detto che Ludo ed io avevamo preparato le carte per sposarci. Le dissi che in sostanza eravamo separati ma che per la sentenza ci sarebbero voluti circa sei mesi; ci trovavamo nella vieux Nice, stavamo mangiando le ostriche al Cafè Turin. Avrei voluto spiegarle il perché e il per come avevo preso quella decisione ma non dissi nulla, trangugiai un'ostrica e bevvi un sorso di Muscadette. Tornando a casa ci sorprese un temporale, la pioggia primaverile ci bagnava tutti i vestiti, i capelli, le scarpe, il viso; le gocce ci cadevano addosso e quando entravano nello spazio fra il colletto e il collo e poi scendevano giù, lungo la schiena, ci facevano il solletico. Percorremmo gli ultimi metri prima del portone correndo goffamente, tenendoci sottobraccio e ridendo come due sceme. Se ora suonassi a quel portone, non mi aprirebbe nessuno: questa è l'idea fissa che mi ha accompagnata per tutta l'estate. Non so dov'è mia madre e fondamentalmente non lo voglio neanche sapere, ma so che non è più lì e nemmeno altrove. A me della morte delle persone è proprio questo fatto qui che mi atterrisce, la consapevolezza che io potrei andare in qualsiasi posto del mondo, anche nell'angolino più sperduto, oppure potrei ritornare nei luoghi dove vivevano i miei cari che ora sono morti ma non li troverei comunque più: pufh, spariti, il giorno prima c'erano, il giorno dopo non ci sono più e sarà così per sempre. Gli anni passeranno, i luoghi rimarrano tali e quali ma di loro non ci sarà più traccia alcuna. Quel portone mia madre non lo aprirà mai più e questo pensiero mi tormenta, perché non riesco a scoprirne l'arcano e misterioso senso e mi domando, "ci sarà un senso?". O forse il senso lo vogliamo dare noi, a tutti i costi, solo perché non siamo capaci, con la nostra mente finita e limitata, di affrontare la vertigine del non-senso, del non significato. Ma poi, a rifletterci bene, anche se sapessi perché mia madre non aprirà mai più quel portone io non è che starei meglio: il portone rimarrà comunque chiuso, solo questo conta, proprio questo mi tormenta.
Come fanno gli altri a sopportare tutto ciò?
Monica Cillario

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